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Newsletter Dicembre 2023

Giuri Associati

31 dic 2023

Newsletter energia ambiente appalti (dicembre 2023)

Argomenti trattati:



  • Rifiuti – tariffe: confermato l’annullamento delle regole tariffarie di ARERA sugli impianti minimi di trattamento (Cons. Stato, 6.12.2023)


  • Rifiuti – società mista: l’affidamento del servizio rifiuti alla società in house prosegue a favore della società risultante da un processo di aggregazione, anche se quest’ultima non è di tipo in house (Cons. Stato 20.11.2023)


  • Gare ambito gas: illegittimo il bando di gara se il valore di rimborso degli impianti non è stato prima verificato da ARERA (Cons. Stato 28.03.2023)


  • Gare ambito gas: inammissibile il ricorso per revocazione della sentenza sulla gara se il ricorso eccepisce un errore di valutazione (Cons. Stato 27.07.2023)


  • Società mista: l’ente pubblico non può costituire una società mista con una società sottoposta a controllo pubblico (Cons. Stato 17.10.2023)


  • Vendita energia: irrogazione sanzione per illiceità del trattamento dei dati dei clienti in sede di acquisizione di nuovi contratti (Garante Privacy 28.09.2023)


  • Appalti pubblici: sottoposta alla Corte Costituzionale la questione di legittimità della normativa sul pay-back sanitario (TAR Lazio 24.11.2023



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GESTIONE RIFIUTI / Impianti minimi

Confermato l’annullamento delle regole del metodo tariffario rifiuti di ARERA relative agli impianti minimi di trattamento rifiuti (Cons. Stato, II, 6/12/2023 n. 10.548)

Il TAR Milano ha accolto i ricorsi presentati da numerosi operatori contro la delibera ARERA 363/2021 nella parte in cui ha introdotto una disciplina tariffaria specifica per gli impianti minimi di chiusura del ciclo rifiuti.


Secondo il TAR, l’Autorità, con l’introduzione degli impianti minimi di trattamento dei rifiuti, ha invaso l’ambito di competenza assegnato dall’art. 198-bis d.lgs. 152/2006 al Ministero dell’Ambiente. Inoltre, assegnando alle

Regioni il compito di individuare gli impianti minimi presenti nel loro territorio, ha attribuito ad esse poteri che non erano stati ancora assegnati dallo Stato.


A seguito dell’appello proposto da ARERA contro la sentenza, il Consiglio di Stato ha confermato l’annullamento delle disposizioni della delibera 363/2019 sugli impianti minimi di trattamento dei rifiuti, per i seguenti motivi.


Gli impianti minimi di chiusura del ciclo rifiuti sono individuati dalle Regioni tra quelli che operano in un mercato caratterizzato da un eccesso della richiesta di trattamento dei rifiuti rispetto alla capacità degli impianti. In pratica, sono impianti collocati in aree in cui la domanda di trattamento dei rifiuti supera la capacità operativa degli impianti presenti.


Agli impianti minimi individuati dalle Regioni si applicano le tariffe stabilite da ARERA, non i prezzi sul libero mercato per il trattamento dei rifiuti.


Il TAR aveva annullato le disposizioni sugli impianti minimi perché ARERA non aveva il potere di disciplinarli.


Nell’appello l’Autorità ha sostenuto che l’introduzione degli impianti minimi non ha una portata autonoma o innovativa (cioè normativa), ma serve solo per definire i criteri tariffari indispensabili per limitare gli effetti distorsivi sui costi delle situazioni di monopolio nella titolarità degli impianti di trattamento.


Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello della Autorità perché la delega conferita ad ARERA dall'articolo 1, comma 527, legge 205/2017 con riguardo alla elaborazione del metodo tariffario, è limitata al «servizio integrato dei rifiuti» e ai «singoli servizi che costituiscono attività di gestione», ma non comprende gli impianti di trattamento dei rifiuti, che costituisce attività liberalizzata.


Con riguardo alle «tariffe di accesso» dei rifiuti agli impianti (“tariffe al cancello”), il potere di ARERA di regolare le tariffe si può estendere a tutti gli impianti di trattamento, anche estranei al servizio di gestione (“gestori non integrati”), solo se questo è funzionale per migliorare il ciclo dei rifiuti urbani.


Di conseguenza, non rientra tra i poteri di ARERA la regolamentazione delle tariffe “al cancello” degli impianti di trattamento che si riferiscono ai rifiuti speciali (che sono al di fuori della gestione dei rifiuti urbani).


Inoltre, l'attività assegnata da ARERA alle Regioni per individuare gli impianti minimi è già indirizzata verso una soluzione alle criticità impiantistiche e indica la quantità di rifiuti da conferire e la loro provenienza. Ciò non solo travalica il potere delle Regioni, ma prescinde anche dalle indicazioni che lo Stato avrebbe dovuto fornire in via preventiva allo scopo di risolvere le criticità esistenti nel settore degli impianti di trattamento.


Infatti, l'art. 195, co. 1, lett. m), d.lgs. 152/06 assegna allo Stato un potere di direttiva nei confronti delle Regioni per determinare i «criteri generali, differenziati per i rifiuti urbani e per i rifiuti speciali, ai fini della elaborazione dei piani regionali».


L’Autorità di Regolazione, incaricando le Regioni di definire gli impianti minimi, ha invaso le prerogative statali, con conseguente illegittimità della delibera 363/2021.




GESTIONE RIFIUTI / Società mista

In caso di passaggio da società in house a società mista con socio privato scelto con gara a doppio oggetto, la nuova società prosegue nella gestione del servizio rifiuti (Cons. Stato, IV, 20/11/2023, n. 9933).

Massima della sentenza: il fatto che il Comune che ha venduto le azioni della propria società in house al socio privato, scelto con gara a doppio oggetto, non abbia poi acquisito le azioni della nuova società risultante dall'aggregazione con il socio privato operativo, non fa venir meno i presupposti per la prosecuzione dell’affidamento del servizio. Ciò perché, al momento della individuazione del socio privato, il comune era ancora socio della società in house e quindi partecipava direttamente all’assunzione delle decisioni.


Acam Ambiente gestiva il servizio rifiuti, ottenuto tramite l’affidamento in house, in diversi comuni della provincia di La Spezia, compreso Lerici.


Nel 2013 il gruppo Acam ha concluso un accordo di ristrutturazione dei suoi debiti con i creditori, successivamente omologato dal tribunale. L’accordo prevedeva che Acam avrebbe dovuto individuare tra le società italiane specializzate nel settore utilities un soggetto con cui realizzare un’aggregazione societaria, per superare la situazione di crisi, ai sensi dell’art. 3 bis, comma 2 bis, d.l. 138/2011: “L'operatore economico succeduto al concessionario iniziale, in via universale o parziale, a seguito di operazioni societarie effettuate con procedure trasparenti, comprese fusioni o acquisizioni … prosegue nella gestione dei servizi fino alle scadenze previste”.


A seguito di gara pubblica, Acam ha selezionato come soggetto con cui aggregarsi IREN s.p.a., società multiutility a controllo pubblico, quotata in borsa.


Di conseguenza, i Comuni soci di Acam hanno ceduto ad IREN le azioni Acam da essi possedute e hanno acquistato in cambio, sottoscrivendo un aumento di capitale a loro riservato, una quota corrispondente di azioni di IREN. Al termine dell’operazione, le azioni Acam dei Comuni sono diventate azioni IREN e quest’ultima, tramite le controllate di Acam, divenute sue controllate, ha continuato a gestire i servizi inizialmente affidati dai comuni alle medesime società controllate.


Il Comune di Lerici, invece, ha aderito all’accordo di investimento solo per quanto riguarda la cessione delle proprie azioni Acam ad Iren, ma non ha acquisito in cambio azioni di quest’ultima. Di conseguenza, non avendo più alcun legame societario con Acam Ambiente, neppure indiretto tramite IREN, ha ritenuto che non ci fossero più i presupposti per proseguire l’affidamento del servizio rifiuti ad Acam Ambiente.


Perciò, il Comune di Lerici ha cercato di affidare il servizio rifiuti ad un’impresa scelta con gara pubblica. Gli atti del Comune diretti a sottrarre il servizio rifiuti al precedente affidatario sono stati impugnati sia dalla società di gestione, che dalla Provincia di La Spezia, e sono stati definitivamente annullati con la sentenza del Consiglio di Stato n. 6655/2020.


Il Consiglio di Stato ha respinto il nuovo appello proposto dal Comune di Lerici sulla materia.


La questione era stata definita dalla Corte di Giustizia UE, con sentenza 12 maggio 2022 (C- 719/20). La Corte aveva evidenziato che non c’erano i presupposti per l’affidamento perché il Comune di Lerici aveva dismesso la sua partecipazione nell’impresa affidataria del servizio (Acam s.p.a.) e non aveva acquisito azioni nell’impresa (IREN s.p.a.), individuata tramite gara pubblica come soggetto aggregatore.


Nonostante ciò, il C.d.S. ha ritenuto che fosse ancora esistente l’affidamento del servizio rifiuti da parte del Comune ad Acam Ambiente per i seguenti motivi:


  • al momento dell’affidamento iniziale del servizio ad Acam c’erano tutti i presupposti stabiliti dall’ordinamento per l’affidamento in house perché il Comune di Lerici aveva aderito alla gestione in forma associata del servizio e aveva una partecipazione nel capitale sociale idonea a esercitare il controllo analogo;


  • il passaggio della gestione da Acam s.p.a. ad Iren s.p.a. non è avvenuto “automaticamente”, ma sulla base di una gara pubblica, svolta da Acam s.p.a. (quando sussistevano ancora i presupposti dell’in house), sulla base dell’art. 3-bis, comma 2-bis, del d.l. 138/2011;


  • la procedura di gara indetta da Acam era anche una gara “a doppio oggetto”, essendo finalizzata non solo alla scelta del partner commerciale, ma anche alla individuazione del miglior operatore per proseguire la gestione del servizio;


  • infine, l’operazione di aggregazione societaria è avvenuta in un contesto in cui la competenza per l’affidamento del servizio rifiuti è passata dal singolo Comune alla Provincia; di conseguenza, il Comune non può più distaccare la gestione del servizio comunale da quello aggregato a livello di ambito provinciale.


Per queste ragioni, il Consiglio di Stato ha confermato il rigetto del ricorso presentato dal Comune.




DISTRIBUZIONE GAS / Gare ambito

Illegittimo il bando di gara se il valore di rimborso inserito non è stato verificato da ARERA (Cons. Stato, V, 28.03.2023, n. 3150)

Il Comune di Chiavari, stazione appaltante della gara per l’ambito Genova 2 Provincia, ha inserito nel bando il valore di rimborso delle reti di distribuzione gas, c.d. VIR, aggiornato all’anno 2019, che però non era stato verificato ed approvato da ARERA.


Il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittimo il bando perché l’art. 15, comma 5, d.lgs. 164/2000 stabilisce che, se il valore di rimborso VIR è superiore di oltre il 10% al valore degli impianti riconosciuto da ARERA per l’approvazione delle tariffe (RAB), il valore di rimborso deve essere verificato da ARERA.


«Ne discende - secondo il Consiglio di Stato - la regola per cui il VIR da inserire nel bando deve essere stato previamente verificato da Arera. Conseguentemente, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere inserito nel bando il valore del VIR al 2017, oppure l’aggiornamento al 2019, indicato nel bando, doveva essere sottoposto alla verifica dell’Autorità».


La stazione appaltante si è difesa affermando di aver trasmesso ad ARERA il valore aggiornato al 2019 insieme con il bando e il disciplinare di gara ai sensi dell’art. 9, comma 2, DM 226/2011: “La stazione appaltante invia all'Autorità, secondo modalità stabilite dall'Autorità, il bando di gara, il disciplinare di gara e le linee guida programmatiche d'ambito con le condizioni minime di sviluppo …”.


In particolare, la stazione appaltante ha fatto presente che l’Autorità non aveva sollevato obiezioni sul valore di rimborso aggiornato all’anno 2019 che la stazione aveva trasmesso ad ARERA insieme agli atti di gara.


Per il Consiglio di Stato, però, tale invio era irrilevante ai fini dell’approvazione del valore di rimborso, dato che la verifica compiuta dall’Autorità ha avuto per oggetto la conformità degli atti di gara (bando e disciplinare) agli atti tipo emanati dal Ministero per lo Sviluppo economico e non la quantificazione del valore di rimborso.




DISTRIBUZIONE GAS / Gare ambito

Non è ammissibile il ricorso per revocazione contro la sentenza sull’aggiudicazione della gara di distribuzione gas per l’ATEM Napoli 1 (Cons. Stato, V, 27/07/2023, n. 7350)

La gara di distribuzione gas per l’ambito Napoli 1 è stata aggiudicata a 2i Rete Gas. Italgas Reti ha impugnato l’aggiudicazione. Nell’aprile 2022 il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso. In seguito, Italgas ha chiesto la revocazione della sentenza per errore di fatto risultante dagli atti o documenti di causa (art. 395, n. 4, c.p.c.).


Il Consiglio di Stato (CDS) ha respinto il ricorso per revocazione per i seguenti motivi.


Innanzitutto, nel processo amministrativo la revocazione è un rimedio eccezionale che non si può convertire in un terzo grado del giudizio, come il ricorso in Cassazione previsto per le cause civili.


L’errore di fatto necessario per la revocazione di una sentenza non più appellabile deve avere tre requisiti:


  • deriva da una errata o mancata percezione del contenuto materiale degli atti che ha indotto il giudice a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto (ad es., si ritiene inesistente un fatto che invece è dimostrato dai documenti in modo certo);


  • riguarda un punto che non ha formato oggetto di controversia, sul quale il giudice non ha motivato in modo espresso la decisione;


  • è stato un elemento decisivo della decisione oggetto di revocazione (CDS, IV, n. 2431/2015).


Inoltre, l'errore deve apparire in modo semplice e immediato, senza bisogno di indagini o ragionamenti particolari (CDS, IV, n. 6006/2013; CDS, II, n. 5983/2020).


In definitiva, l'errore di fatto che giustifica la proposizione della domanda di revocazione esiste quando ci sono due rappresentazioni divergenti della realtà: quella che emerge dalla sentenza e quella che risulta dagli atti e documenti processuali.

Esso non richiede alcuna attività di ragionamento, cioè di interpretazione e valutazione del contenuto di domande, eccezioni e delle prove presentate dalle parti nel giudizio.


Ad esempio, l’errore consente la revocazione della sentenza se il giudice non ha pronunciato su determinate domande o ha esteso la sua decisione a domande o eccezioni che non erano presenti negli atti processuali (CDS, III, n. 3053/2012).


Invece, la revocazione non è possibile se si eccepisce che il giudice ha valutato le risultanze processuali in modo errato. In quest’ultimo caso, non è possibile impugnare la decisione con la revocazione, perché ciò darebbe vita ad un terzo grado del giudizio che non è ammesso nel processo amministrativo (CDS, V, n. 6304/2020).


Per questi motivi, il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il giudizio di revocazione contro la sentenza che ha definito il ricorso contro l’aggiudicazione della gara gas per l’ATEM Napoli 1.



SERVIZI PUBBLICI / Società mista

L’ente pubblico non può costituire una società mista con una società sottoposta a controllo pubblico (Cons. Stato, V, 17.10.2023, n. 9034)

Roma Capitale ha indetto una gara a doppio oggetto per costituire una nuova società mista a cui affidare il servizio scolastico integrato. Alla gara ha partecipato solo il raggruppamento di imprese (RTI) formato da Roma Multiservizi Spa e Rekeep Spa.


Il Comune di Roma ha escluso dalla gara il RTI perché non si trattava di un socio privato vero e proprio. Infatti, Roma Multiservizi è controllata AMA Spa, società controllata a sua volta al 100% dal Comune di Roma.


Le società hanno impugnato l’esclusione, ma la scelta fatta dalla stazione appaltante è stata ritenuta corretta dal Consiglio di Stato.


La controversia aveva già formato oggetto della sentenza della Corte di Giustizia del 1° agosto 2022 (causa C-332/2020) a seguito della questione pregiudiziale sottoposta dal Consiglio di Stato.


La Corte di giustizia UE ha fissato il principio per cui un ente pubblico può escludere un’impresa dalla gara “a doppio oggetto”, diretta da un lato a costituire una società a capitale misto e, dall’altro lato, ad aggiudicare a tale società un appalto pubblico di servizi, se l’esclusione è giustificata dal fatto che l’aggiudicazione della gara a tale impresa comporta il superamento della quota sociale pubblica prevista come limite massimo dall’Ente nella società mista.


Nella fattispecie ciò si è verificato se si tiene conto della quota posseduta dal Comune di Roma nella società concorrente alla gara (Roma Multiservizi) come socio privato operativo della società mista.


La Corte di giustizia ha precisato che l’esclusione del concorrente dalla gara per costituire una nuova società mista è condizionata al fatto che la sua partecipazione comporti comunque un aumento del rischio nella società mista a carico dell’ente pubblico.


Nel caso in esame, innanzitutto l’art. 17, comma 1, d.lgs. 175/2016 stabilisce che nella società mista il socio privato deve avere una quota minima pari al 30% del capitale.


La delibera di indizione della gara aveva stabilito che il socio privato operativo avrebbe dovuto avere una quota pari al 49% del capitale della società mista. Invece, la aggiudicazione della gara al RTI composto da Roma Multiservizi non permetteva al capitale privato di raggiungere effettivamente tale quota, dato che la maggioranza del capitale della concorrente Roma Multiservizi era posseduto dal Comune, quindi era in mano pubblica.


Perciò, il Consiglio di Stato ha enunciato il seguente principio: il socio privato deve essere operativo e non un mero socio di capitale, stante la specificità del ruolo che deve assumere nell’attuazione dell’oggetto sociale. Del resto, il coinvolgimento del socio privato per il perseguimento di interessi generali si giustifica per la mancanza nella pubblica amministrazione delle competenze possedute dal privato.


La partecipazione del socio privato operativo deve essere adeguata. Tale adeguatezza è stata fissata dal legislatore nazionale nella soglia minima di partecipazione del 30%.


Il rischio imprenditoriale del privato verrebbe annullato in presenza di un’ulteriore partecipazione indiretta della parte pubblica nel capitale della società mista.


In breve, secondo la sentenza, la quota di Roma Multiservizi posseduta dal Comune di Roma finirebbe per attribuire (seppur indirettamente) al medesimo ente pubblico un’assunzione dei rischi che lo stesso –tramite il ricorso al mercato – intendeva affidare ad un privato “terzo”. Da ciò deriva la legittimità dell’esclusione del concorrente dalla gara a doppio oggetto per la ricerca del socio privato operativo.




GARANTE PRIVACY

Garante Privacy condanna società di vendita di energia per illiceità del trattamento dei dati personali dei clienti (Garante Privacy, provv. 28/09/2023, n. 427)

Il Garante Privacy ha comminato una sanzione di 10 milioni di euro ad Axpo Italia Spa, società fornitrice di energia elettrica e gas, per l’attivazione di contratti non richiesti nel mercato libero mediante il trattamento di dati della clientela inesatti e non aggiornati.


Secondo il Garante, la società di vendita di energia è responsabile per le violazioni alla disciplina sulla privacy commesse dagli agenti incaricati di promuovere la stipula di nuovi contratti. Infatti, il titolare del trattamento dei dati è il soggetto che ha la responsabilità generale del trattamento, a prescindere dal fatto che ha eseguito le azioni direttamente o tramite soggetti incaricati. Sul titolare grava, perciò, l’onere di attuare un sistema organizzativo e gestionale caratterizzato da misure efficaci per la protezione dei dati personali.


Nel settore della vendita di energia e gas il Garante si era già pronunciato con il provvedimento del 11/12/2019, indicando le modalità organizzative e gestionali che un titolare del trattamento, operante come fornitore di energia, è tenuto ad attuare all’atto dell’acquisizione di nuovi clienti, per garantire che il trattamento sia effettuato in modo conforme al Regolamento sulla protezione dei dati.


Nella fattispecie, Axpo Italia, che ha trattato illecitamente i dati personali di oltre 5mila utenti, dovrà adottare una serie di misure tecniche e organizzative prescritte dall’Autorità per conformarsi alla normativa sulla protezione dei dati.


Il Garante è intervenuto a seguito di numerosi reclami di utenti che lamentavano l’attivazione a loro insaputa di contratti di luce e gas intestati a proprio nome, dei quali erano venuti a conoscenza dopo aver ricevuto lettere di chiusura del precedente fornitore o dei solleciti di pagamento delle fatture insolute.


Gli utenti lamentavano che i dati personali indicati nel contratto (ad es. indirizzo e-mail, numero di telefono e di fornitura) erano inesatti o aggiornati.


Dalle ispezioni effettuate dal Garante è emerso che la società acquisiva i nuovi contratti per la fornitura di luce e gas tramite una rete di circa 280 venditori (agenti e subagenti) porta a porta, senza essersi dotata di strumenti e procedure idonee ad avere certezza che i dati inseriti dai venditori all’interno del proprio database corrispondessero effettivamente ai reali utilizzatori delle utenze (ad esempio, sistemi di alert per rilevare anomalie procedurali; procedure di controllo dell’operato delle agenzie; verifiche puntuali dell’esattezza dei dati; ecc.).


Tali carenze hanno comportato l’acquisizione di contratti non richiesti, spesso compilati con dati personali inesatti e non aggiornati.


L’Autorità ha quindi ingiunto ad Axpo Italia l’adozione di una serie di misure correttive, comprese:


  • l’utilizzo di un sistema di chiamata di verifica (“check-call”) del nuovo cliente, di tipo bloccante, che permetta di verificare la correttezza dei contratti acquisiti tramite la rete di venditori;



  • l’introduzione di sistemi di avviso nel programma informatico di gestione dei clienti, idonei a rilevare eventuali comportamenti scorretti o fraudolenti nell’acquisizione dei dati di potenziali clienti da parte dei venditori (es., rilevazione nel programma CRM di numeri telefonici e e-mail ricorrenti più volte; inesattezza o incompletezza dei dati contrattuali acquisiti; caricamento a sistema di proposte di contratto multiple a nome dello stesso soggetto; eccessivo numero di contratti stipulati dallo stesso agente, ecc.);


  • l’attuazione di meccanismi per accertare l’effettiva ricezione delle comunicazioni trasmesse al cliente in fase di stipula del contratto di fornitura; in generale, non è necessario che la mancata conferma di recapito delle comunicazioni al cliente abbia un effetto “bloccante” per la continuazione della procedura di stipula del contratto, ma essa deve generare un avviso che comporta maggiori controlli sulle modalità di acquisizione e di trattamento dei dati dei potenziali clienti;


  • l’adozione di regole procedurali dirette a rafforzare le attività di audit nei confronti dell’operato delle agenzie; in particolare, adozione di procedure per cui, in casi di ricevimento di una quantità anomala di proposte contrattuali, disconoscimenti, reclami per attivazione non richieste, venga prevista la verifica sulla generalità delle operazioni effettuate dalla stessa agenzia (es., tramite esame delle proposte caricate dall’agenzia); questa attività può essere svolta a campione o comunque con modalità poco invasive per il cliente (es., mediante avviso nella bolletta).



La società che ha ricevuto l’ordinanza ingiunzione del Garante Privacy ha la possibilità di proporre opposizione davanti al tribunale civile del luogo in cui ha sede entro 30 giorni dalla data di comunicazione del provvedimento (art. 10, d.lgs. 150/2011).



NON SOLO ENERGIA E AMBIENTE …

Rimessione alla Corte Costituzionale della questione di illegittimità costituzionale della disciplina sul payback dei dispositivi medici (TAR Roma ordinanza 24/11/2023 n. 17553)

Lo Studio Giuri e Associati ha assistito con successo un importante gruppo multinazionale che fornisce dispositivi medici nella impugnazione davanti al TAR Lazio, Roma, dei provvedimenti con cui sono stati stabiliti i tetti di spesa a livello nazionale e regionale per l’acquisto dei dispositivi medici ed è stato previsto che l’eventuale superamento del tetto di spesa regionale sia a carico delle aziende (c.d. payback).


Si tratta di un sistema introdotto inizialmente per la spesa farmaceutica e che è stato esteso nel 2015 anche al settore dei dispositivi medici, rimanendo però per lungo tempo privo di attuazione. Nel 2022 il Ministero della Sanità ha retroattivamente stabilito i tetti di spesa per l’acquisto dei dispositivi medici per gli anni 2015-2018.


Complessivamente la somma richiesta dallo Stato alle aziende è pari a circa 2,2 miliardi di euro e, insieme agli importi delle annualità successive, rischia concretamente di mettere in crisi numerosi operatori.

I provvedimenti del Ministero e quelli applicativi da parte delle singole regioni e province autonome sono stati quindi oggetto di numerosi ricorsi davanti al Giudice Amministrativo.


Con ordinanze pubblicate in data 24/11/2023, il TAR Roma ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9-ter del d.l. 19 giugno 2015, n. 78, per contrasto con gli artt. 3, 23, 41 e 117 Cost., facendo presente che:


  • a differenza del settore farmaceutico, il payback dei dispositivi medici è finalizzato esclusivamente a compensare il deficit pubblico, senza considerare che i prezzi dei dispositivi medici - a differenza di quelli dei farmaci - sono determinati sulla base di gare d'appalto pubbliche (art. 3 Cost.);


  • l'imposizione del payback costituirebbe un onere ingiustificato ed eccessivo per le imprese, in quanto la determinazione dei tetti di spesa è avvenuta ex post (nel 2022 per gli anni 2015 - 2018), senza alcuna prevedibilità per gli operatori economici, ostacolando la loro capacità di valutare con precisione i reali costi di partecipazione alle gare (art. 41 Cost.);



  • la totale mancanza di certezza e prevedibilità della normativa sul payback, nonché la sua retroattività, violerebbero il principio dell'affidamento da parte degli operatori economici e il principio della certezza del diritto (art. 117, co 1, Cost.);


  • la totale assenza di criteri specifici nella legge per la determinazione dei tetti di spesa costituirebbe una chiara violazione della riserva legislativa in materia di oneri pecuniari imposti (art. 23 Cost.).



Il TAR ha quindi accolto la richiesta di sottoporre alla Corte Costituzionale la questione di legittimità della legge sul payback, accogliendo pienamente anche i motivi da noi esposti nel ricorso.


È auspicabile che, alla luce dei provvedimenti del TAR, il governo intervenga sulla materia prima della pronuncia della Corte Costituzionale, riformando un sistema che rischia di compromettere il settore delle imprese che commercializzano dispositivi medici, che riveste un ruolo fondamentale per la sanità pubblica.






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